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Burnout e produttività tossica: la linea sottile da non superare

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“You can’t pour from an empty cup. Take care of yourself first.”

C’è una parola che ha cominciato a circolare sempre più spesso nei corridoi (virtuali o reali) delle aziende, nei canali dei team e nelle call settimanali: burnout. Non è una moda, non è un’esagerazione. È una realtà che, in silenzio, si insinua nei team ad alta intensità, nei progetti ambiziosi, nelle giornate che non finiscono mai. E spesso si presenta con il volto della “produttività”.

In un mondo dove il lavoro è diventato pervasivo — dentro le notifiche, nel tempo libero, nella nostra identità — è facile confondere il “dare il massimo” con il “darsi completamente”. E proprio lì, in quel confine sfocato, nasce la produttività tossica.

Il burnout non è solo stanchezza. È un esaurimento più profondo, emotivo, mentale, fisico. È la sensazione di spegnersi lentamente, di perdere il senso di ciò che si fa, anche quando all’esterno tutto sembra procedere. A volte arriva con segnali chiari: mancanza di motivazione, calo di energia, difficoltà a concentrarsi. Altre volte, è più subdolo: si lavora in automatico, si risponde per inerzia, ci si allontana emotivamente da ciò che prima appassionava.

In questi casi, il ruolo del team leader diventa cruciale. Non solo per individuare il problema, ma per prevenirlo. Guidare un team non significa spingerlo sempre sull’acceleratore, anzi. Significa saper leggere il contesto, dosare le energie, proteggere le persone anche da sé stesse, quando rischiano di oltrepassare quel limite invisibile tra impegno e logoramento.

C’è una cultura del lavoro che ancora oggi celebra l’iperpresenza, le giornate infinite, le email mandate a mezzanotte come simboli di dedizione. Ma questo modello, semplicemente, non regge. Non regge per chi lavora, non regge per chi guida, non regge per le organizzazioni che vogliono durare nel tempo.

Cambiare questa cultura richiede piccoli gesti quotidiani. Difendere momenti di concentrazione vera, in cui non si è interrotti ogni cinque minuti. Promuovere il riposo non come premio, ma come parte del processo. Accettare che non tutto è urgente, e che non tutto va risolto subito. Riconoscere che non c’è valore nel sacrificio fine a sé stesso, se non porta reale impatto.

E poi, soprattutto, creare spazi in cui si possa parlare apertamente. Dove dire “oggi sono stanco” non viene letto come debolezza, ma come segno di consapevolezza. Dove ci si ascolta davvero, senza giudicare, e dove prendersi cura l’uno dell’altro diventa parte integrante del lavoro.

Un team che sta bene lavora meglio. È più creativo, più coeso, più resiliente. Non ha bisogno di bruciare per brillare. E un leader che sa questo, che protegge il ritmo sostenibile del suo team, sta facendo qualcosa di più che “guidare”: sta coltivando.

La vera produttività non è correre sempre. È sapere quando è il momento di fermarsi. Per respirare. Per ricaricarsi. Per ricominciare, con energia vera.

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Roberto Beccari
Pubblicato inLavoroLeadershipProduttivitàTeam leader

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